Marcello Venturoli, Bruno Caraceni alla Alibert, in “Paese sera”, Roma, 19 aprile 1958.
Bruno Caraceni espone alla galleria Alibert una serie di opere astratte. Un senso di repulsione ispira la materia vascolare alla placenta con buchi orbite di sanguinaccio, coperte di sforacchiate budella a gridar la luce sopra gobbe e voragini materiche, rilievi alla Burri di mondi al telescopio, di universi dentro una goccia: ma questo senso di disgusto sarebbe senza dubbio vinto, anzi potrebbe costituire soltanto un anticamera per la simpatia verso l’artista, se egli fosse meno programmaticamente polemico ed ortodosso nel suo canone di espressionismo astratto, rilevato e polimaterico; se sperimentasse di meno e dipingesse di più, se fosse meno poeticamente convinto delle sue follie, tutte perpetrate a sangue freddo, con lucida pazienza: una maggiore disinvoltura, a tutto vantaggio di una più accettabile repellenza, sono da auspicare nell’arte di Caraceni.
Emilio Villa, “Appia, Atlante internazionale d’arte nuova” numero 2, Roma, 1960.
Il furor geometricus o furor geometricans, vi si attesta come nozione un po’ patetica dell’essenza non rimediabile, come naturalezza senza tregua: o labirinto di interiezioni sospese e coinvolte, grammatica dei chiasmi, ordinata espressione del costellare, crasi e dieresi la più breve distanza tra due punti non esiste se non come apertura del caos, del terrore: di dove partono le dimensioni del concetto, le frequenze della declinazione analitica, il mito delle apparizioni ordinate; in realtà, gracile metafisica elettrizzata, metafora nervosa: cioè una nebulosa lieve interruzione, spettrale, radiografica, dell’organismo sensitivo, della sua zona impossibile è calcolata, nel recesso disteso delle battute frenetiche, accese; il recesso della depressione tagliente e dell’analisi speculare; nessun rapporto tra questa operazione e gli equivoci ho i sofismi del geometrismo platonizzante: e invece un lavoro di paziente inventiva, di ascolto di attesa, di trasalimento, dove corrono limpide emergenze al di sotto dei tessuti emblematici dei filamenti: fili proiettati che corrono di punta in punta da angolo in angolo, una specie di follia lucida, organizzata, chiara, un po’ crudele, seminando possibilità, e strisci di echi e rincorse, tracce di pendini, urli di declivi puerili, steli che trebbiano angolature tra l’ambiguo e il convulso sulla ceca agonia delle figurazioni sottostanti, e percorsi dissipati, sigilli, clausole di un martirio sereno di impulsi, di sete, di entusiasmo, di corrispondenze e di negazioni: tale è forse l’ordine attuale della pittura di Caraceni, ordine isolato e profondissimo.
Maurizio Calvesi, Caraceni, 481° Mostra del Cavallino, dall’8 al 18 novembre 1960.
Fra intanto parlare che si fa di pittori, può capitare che resti sotto silenzio, o quasi, una figura autentica, una storia ben precisa e coerente, valida, come quella di Bruno Caraceni. Una sua bibliografia non esiste, se si eccettua il recente corsivo di Villa (in “Appia” numero 2, gennaio 1960). Eppure il suo lavoro, almeno da sei anni, ha un senso continuo, una sua logica difficile ma acuta, con la quale dobbiamo fare i conti. C’è una spiegazione, forse, all’isolamento di Caraceni, oltre a quella, certo fondamentale, della sua istintiva riservatezza. Un pittore che dipinge a finestre chiuse, con la lampadina, non poteva che suscitare sospetto in tempi “astratto-concreto”, prima, e di calore informale, poi, in tempi pur sempre, ci si passi l’azzardo, di pittura en plein air: fosse anche quello in scatola di Bazaine, e la gran luce disintegrata di Pollock. Un certo allargamento di orizzonte, che poi se ha avuto, da Burri a Fontana, o certo riscoperta di Dada, e di neoplasticismo, hanno messo più a fuoco anche il problema di Caraceni. Non che Caraceni abbia qualcosa spartire, almeno per via diretta, con questa rosa di fenomeni, ma egli ci si trova in mezzo per la semplice ragione che anche il suo problema prende, storicamente, le mosse dal quinquennio 1915-1920, dal combaciare cioè di due facce, quella razionalistica di Mondrian e “artificialità” frapposto dall’uomo alla natura. Caraceni intesse con i suoi “fili” sillogismi da una grande lucidità che va come a vuoto, è la certezza di Cartesio e di Mondrian che si snerva nel non senso di dada. Ma se gli estremi son questi, il punto dialettico cruciale, la psicologia del suo sillogismo, non è lucidità né un non senso; è un allarme che squilla, come da una suoneria aerea e lontanissima, quasi un virgolette terrore che corre sul filo “. Egli intitola “gesto” le sue attuali pitture. E infatti la sua è stata sempre una pittura agita, perché non contempla né contemplante. Il suo idolo è la tecnica, la tecnica come pulizia, la tecnica Come calcolo, la tecnica come integrale artificialità, era tecnica è azione. Ma il gesto di Caraceni non fa clamore: e se l’azione non s’estroverte, resta la tecnica come puro dato di sé, che ricama entro i limiti; che s’introverte in se stessa per diventare un pensiero ossessionante e suicida. E questo sembra il centro del suo sillogismo, un pensiero come di panico, sottile è puntuale come la stessa emergenza fisica della trama contro la superficie, di silenzio, del dipinto. Non si citi Rivera, per favore, che il senso è troppo diverso; e “Fili” di Caraceni erano già quelli delle sue vecchie sculture, erano i segni esigue continui dei suoi “scherzi” in bianco e nero; e rilievo dell’ordito era già quello sperimentato, nel ‘57, con le pelli ustionate semilucide del cellophane. Allora, ad emergere, era quasi un volto, del tutto non-umano ma pietoso, misteriosamente emblematico nei suoi gonfiori e sollevamenti di sfoglia.
Presentazione di Mario Manieri Elia, personale di Bruno Caraceni alla galleria Numero, Roma, 13 aprile 1961
Se è vero che la macchina viene sostituendo, intorno a noi, la natura, e il mutamento dell’ambiente in cui viviamo assume ritmo e dimensioni inusitate, è pur vero che gran parte dell’energia umana si indirizza verso il controllo e l’organizzazione dei mezzi e degli interventi dell’uomo, che di tale mutamento è, insieme, responsabile e vittima. Questo è senza dubbio, uno dei motivi per cui alcuni pittori, all’inizio del secolo, abbandonata la tradizionale imitazione del creato, hanno cercato, nell’ambito dell’architettura, la via dell’invenzione e della ricerca. Da Klee a Kandinsky in poi, anche se in forma meno sistematica che nel Bauhaus, una parte della pittura ha svolto e svolge questa funzione di sondaggio e analisi, di stimolo qualitativo, in cui l’individualismo dei pittori viene ad integrare l’azione qualitativa degli architetti, orientati all’opposto verso una metodologia che cerca, nella pianificazione e nella collaborazione, i mezzi per arginare gli incalzanti problemi tecnici e sociali. Ma questa funzione insostituibile, riservata all’artista contemporaneo, richiede che un acuta sensibilità sia accompagnata da capacità analitica e serietà di ricerca. Le doti, mi sembra, di Bruno Caraceni. E mentre col affiorare, in ogni campo, dei vecchi concetti, si viene diffondendo un ennesimo è più assurdo formalismo, di tipo non formale, pare davvero che l’impegno assiduo e solitario, con cui Caraceni insegue le leggi dei suoi tracciati, emerga e si affermi come una ricerca valida. Dai segni continui e nervosi dei suoi primi grafici, che successivamente si spezzano e si confondono, e poi diventano filamenti semi sommersi dalle pellicole rigonfie del plexiglass bruciacchiato; al filo metallico che traccia, da un chiodo all’altro, strutture sempre lucide e rigogliose, non è difficile individuare le tappe di una ricerca coerente e tenace, condotta aperta (parentesi e chi conosce Bruno, sa quanto scevra da culturalismo) con sicuro intuito metodologico. L’esibizione autobiografica, l’evasione intimista, il “qualunquismo della catastrofe”, sono, per fortuna, ben lontani da lui. E, superata l’avanguardia, e il manierismo di quella, resta l’intelligenza e proficua solerzia del tecnico sperimentatore ed il positivo impegno dell’ideatore, alla verifica dei calcoli strutturali. Nonostante il suo atteggiamento schivo e sommesso, non è difficile riconoscere in Bruno Caraceni la forza tranquilla di chi sa che non è un presagio, una denuncia od una rivoluzione, ciò che ci si aspetta da un uomo: ma solo il suo contributo genuino ad una giusta impostazione e soluzione dei problemi del nostro vivere sulla terra e, tra poco, fuori.
Filiberto Menna, in “Telesera”, 24 aprile 1961.
Caraceni ci mette sotto gli occhi un’arte rigorosa e il più possibile oggettiva, ossia senza sbavature intimistiche, senza esibizioni e colpi di testa, ma sorretta sempre da una tensione lirica fortissima. Si osservino i ritmi quasi musicali che l’artista riesce ad imprimere ai suoi fili metallici e l’essenzialità delle forme evocate sugli ampi spazi delle superfici e ci renderà conto di come, nell’opera di Caraceni, le ragioni oggettive della struttura non neghino le ragioni soggettive ma, ineliminabili, del sentimento.
Alberto Boatto, in “Leggere. Mensile bibliografico e di Cultura”, Roma, maggio 1961.
Siamo in un momento di rilanci e riprese. Ciò accade sempre quando ci troviamo in una fase di transizione: si tenta di liquidare il recente passato e di aprire il futuro cercando alleati in esperienze e in lezioni che erano state provvisoriamente accantonate, messe in disparte con troppa fretta. Ogni apertura sul nuovo ha come contropartita inevitabile la riscoperta di un aspetto diverso del passato. Se l’informale guardava al futurismo, all’opera astratta del primo Kandinskij, all’anarchia di dada, all’automatismo surrealista, oggi che si vuole e si deve andare oltre l informale, che si affondi in una sostanza organica. Il pericolo resta quello di insabbiarsi in un silenzio troppo letterale del passato, di spacciare per prima novità l imitazione di vecchie opere. Ma la stessa corsa necessaria al rischio è là a testimoniare che qualcosa di nuovo sta maturando, che intanto si va stabilendo, per le nuove ricerche, una inedita base culturale, un nuovo punto di attacco. È ciò che sta facendo con lucida ostinazione Bruno Caraceni. Nel suo lavoro, se da un lato l’artista è interessato alla positività del costruttivismo, dall’altro è alle prese con quel nulla che rappresenta la nera eredità che dada ha lasciato all’informale. In altre parole, mentre l’ordine dei costruttivisti partiva dal pieno della ragione, l’ordine, il bisogno di chiarezza, il prevalere della consapevolezza creativa che guidano la ricerca di Caraceni, partono dal vuoto, dal nulla. I fili che l’artista sospende con geometrica ossessione sul piano sabbioso della tela, sono tesi per contrastare con una tessitura ordinata ed esatta la presenza inquietante del nulla. La trama, l’intreccio, la matematica costellazione zodiacale gli si riferiscono costantemente. Che cos’è che rappresenta l’ordine opposto all’assenza del vuoto, opposto al disordine, a quell’altra faccia del nulla? La tecnica, è la risposta del nostro tempo. Caraceni, appassionato d’ordine e di esattezza, ha eletto appunto la tecnica a guida del suo lavoro. Se è il caso che fa da fondamento al disordine, è la tecnica a garantire una precisione di metodo che trasforma il caso in una occasione, in una opportunità di ordine, di regolarità, di chiarezza. I fili, i chiodi, la sabbia sono per il giovane artista dei dati inerti, delle occasioni, simili ai materiali che un laboratorio scientifico offre a qualche moderno “apprendista stregone”, sui quali viene ad esercitarsi una esperienza rigorosa ma intuitiva ancora, la quale formula delle ipotesi, identifica delle proposte di ordine, il quale ancora una volta è equilibrio, concordanza di parti. Ma la presenza irriducibile del negativo è là a contraddire ciascuna proposta: il nulla fa sì che ogni risultato non sia mai assoluto, ma resti sempre relativo. In un tempo come il nostro di robot e di navi spaziali che ha bisogno prima di tutto di chiarire il rapporto fra l’uomo e la tecnica, anche la lucida, calcolata ossessione alle prese col nulla di Caraceni può rappresentare un richiamo positivo contro la troppo grande certezza della tecnica e l’opposta indifferenza della maggioranza degli uomini.
Bruno Munari, Caraceni, personale alla Galleria Numero, Milano, 1961.
L’idea che un’opera d’arte possa anche essere diversa da una pittura o una scultura, e che si possa fare con mezzi non tradizionali, comincia a farsi strada. Ormai sono molti gli artisti che, abbandonati i mezzi tradizionali, si avviano per vie inesplorate alla ricerca di mezzi espressivi che possano trasmettere un’idea concreta e non l’immagine di questa idea come avveniva in pittura. Quante pitture astratte, informali, di gesto, di materia, eccetera, sono ancora e sempre, tutto sommato, delle nature morte o dei paesaggi, debitamente incorniciati, come si legge negli inviti alle mostre ufficiali. Non c’è infatti nessuno differenza tra una composizione di bottiglie e una di forme astratte abitualmente adagiate su di un fondo: mele, triangoli, macchie, bottiglie, nuvole e forme irregolari, hanno lo stesso valore compositivo sia in un quadro verista dipinto ad olio, sia in un quadro fatto con stracci o lamiere. Lo stesso valore pittorico. Lo stesso valore compositivo. Caraceni si è accorto di questo ed ha cominciato a staccare il disegno dalla superficie del quadro. Il disegno è entrato in un altro mondo: non più il mondo illusorio della vecchia pittura ma il mondo reale delle cose concrete. Nella sua mostra si possono notare tutti i passaggi che ha fatto per uscire dai mezzi tradizionali. In altre opere c’è ancora un fondale pittorico, un colore allusivo, ancora un’apparenza di quadro. In altre il segno esce decisamente dalla superficie e addirittura, nelle ultime opere giura anche dall’altra parte. Ora le immagini vivono realmente fuori dal quadro. Anche il colore assume un nuovo interesse, dapprima allusivo, raffigurativo, tonale, lentamente si trasforma in timbrico per divenire, nelle ultime opere esclusivamente linguaggio diretto a confondersi con le immagini concrete. Caraceni lascia infatti che in certi casi i suoi fili abbiano il colore naturale della loro materia e il piano sul quale si organizzano faccia da sostegno come un pezzo di superficie illimitata. In altri casi l’opera viene esposta di taglio per rendere visibile il tracciato dei fili sulle due superfici. Lo spettatore muovendosi attorno all’opera può ricevere molte immagini dalla combinazione ottica dei tracciati. Spero vivamente, dopo aver evitato con cura di parlare nel caso di Caraceni di quadri, di pittura, di rappresentazione, di atmosfera, ecc. (linguaggio più adatto alle opere d’arte dipinte) che lo spettatore non guardi queste opere concrete con gli occhi socchiusi, cercando un significato, una interpretazione o un qualcos’altro che non c’è. Queste cose vanno osservate per quello che sono, non hanno significati, non contengono letteratura, sono immagini che, osservate attentamente e soprattutto senza preconcetti, si rivelano e lasciano una traccia, qualcosa che si sa ancora definire.
Maurizio Fagiolo, Bruno Caraceni ovvero, la tela di Penelope, in “Documenti di Numero”, n.1, Firenze, agosto – settembre – ottobre 1965.
“Fra il tanto parlare che si fa di pittori, può capitare che resti sotto silenzio, o quasi, una figura autentica, una storia ben precisa e coerente, valida, come quella di Bruno Caraceni. Eppure il suo lavoro, almeno da sei anni, ha un senso continuo, una sua logica difficile ma acuta, con la quale dobbiamo fare i conti”: questa frase iniziale della presentazione di Maurizio Calvesi al “Cavallino” (1960) è, ahimè, valida ancor oggi. Dopo ci sono state le presentazioni di Bruno Munari e Manieri Elia e qualche segnalazione (di Menna, Boatto, Venturoli), ma sembra destino che questa ricerca così aperta debba restare segreta. È una ricerca fondata sull’esperimento. Non l’esperimento cagliesco per il quale poco importa che il passo (sempre indietro) sia indirizzato al rinascimento o alle caverne preistoriche, alla metafisica o al secentismo. Le plastiche del ’57 e le opere neo-geometriche del ’60 preannunciano svolte posteriori, ma Caraceni non si ferma un attimo. Sa che è illusione fondarsi sulle “certezze”, sa che vale di più una proposta. Nessuna risposta tranquilla e sferzante, dunque: il dubbio presiede a quest’opera che ha più il tono dell’interrogativo che dell’esclamativo. Forse è vero quanto dice Jonesco (nel Roi se meurt); l’impossibilità di rispondere è già una risposta. La risposta infatti è la fine del colloquio mentre il dubbio è una via aperta alla ricerca. E Bruno Caraceni, ultima Penelope, fa e disfa la sua tela, per un Ulisse che sicuramente non saprà capire le sue intenzioni. E poi c’è l’aspetto fantastico di questa operazione. Caraceni sa che uno soltanto è il compito dello sperimentatore: arricchire il mondo di immagini. Del resto, è molto facile trovare per l’artista che sa qualche quel che cerca. L’immagine esplode in queste opere che non sono “puriste” (come vuole Venturoli) e neanche prive di significato (come sembra credere Munari). Ognuna è un racconto di fantascienza, è una favola ovvero un’avventura, e come in tutte le avventure c’è il pizzico di crudeltà, e come in tutte le favole c’è un lieto fine. Parlare di Caraceni ha il sapore fresco dell’inedito. Tanto lavoro accumulato, spesso in anticipo sugli altri sempre all’ora giusta con sé stesso. Sei o sette periodi si possono distinguere nella sua opera, e c’è sempre qualcosa che prelude al momento dopo e qualcosa mutato dal momento prima: un prezioso registro di dare e avere. Proveremo a distinguere quattro momenti (la formazione, le plastiche, i fili, le mappe) nell’iter di Caraceni, anche se le proposte sono molte di più. Lungi dall’essere “purista”, cioè sempre uguale a se’ stessa, questa opera è un lungo romanzo a puntate punto e non riusciamo ancora a intravedere la conclusione.
La fase formativa. Le opere dal ’52 al ’56, documentate in una monografia, ci presentano le sue certezze (poche) e le molte incertezze. Ci chiediamo: Caraceni sarà il pittore degli spazi percorsi da scansioni fulminee, al modo cubista? O sarà il pittore (un Klee maturato in provincia) che sa costruire un personaggio con un segno continuo? O sarà il pittore dada del gioco di sagome ritagliate? O sarà il pittore delle macchie, primo accenno informale, o il pittore che alterna materia e segno? Forse il vero Caraceni dovremmo cercarlo nell’introduzione scritta alla monografia. Sono tre “nastri” registrati (Sinisgalli li riportò in “Fiera Letteraria”) con impossibili discorsi di personaggi che sono lettere dell’alfabeto, ossessionati dal “chiodo” e da una strana formula alchemica che è un principio di ripetizione e di continuità. Uno-nessuno-centomila, Caraceni comincia da ora la sua vita, il fare-disfare.
Le plastiche. Pochi si accorsero di questo momento, e dobbiamo andare a ritrovarne i documenti nei vari cataloghi di Biennali e Quadriennali (e in una personale del ’60 all’ “Appia”, presentata da Villa). Sono del ’57 i primi esperimenti con una nuova materia, un plexiglass sottile e traslucido, che viene a collocarsi su un piano di fondo assumendo il ruolo di primo-piano: è intanto rimandata a quella più importante individualità che è lo spazio. Caraceni avverte la esigenza di dare una costruzione alla materia, di additare il principio di formazione (linea e punto, come insegnava Klee). E poi, se la plastica frantumata e boccheggiante è la “materia”, ecco il filo inizia ad individuarsi come un fatto “costruttivo”. Viene la serie di quadri intitolati Manifesto e dedicati all’anno geofisico: e il quadro del ’57 a strati che accoglie anche lo scheletro che sembra fil di ferro ed è invece solo disegnato; e il quadro del ’58 con toni bronzei e argentati; o la plastica grigia con i vuoti crateri anneriti; o la serie di plastiche in cui il filo domina e diventa una gran matassa schiacciata, nucleo fisso per onde di plastica. Assistiamo ad una convivenza di plastica e disegno, finché lentamente la plastica (leggi: “materia”) scompare, ed esce alla ribalta il filo che ambisce a diventare di per se stesso materia. Ma certo. Quei rossi e altre accensioni che intervengono nei grandi crateri (lunari: la solita fantascienza) sono un derivato delle macchie sanguinanti e delle eruzioni dei “Sacchi” di Burri. Ma come non sottolineare che, come tutti gli allievi originali, Caraceni preannuncia una svolta del maestro, vogliamo dire le trasparenti “Plastiche”? Lui, l’artista, ha capito prima di tanti critici che i sacchi di Burri erano corpi maciullati, brani di carne sfatta, grovigli di uomini vivi nel loro urlo disperato: e ha cercato di dare a tutta quella carne uno scheletro.
I fili. Intorno al ’60 avviene la rottura, in un quadro programmatico (vogliamo definirlo “La quiete dopo la tempesta”?) su un fondo con la grande macchia sgocciolante Caraceni colloca una serie di chiodi e dall’uno all’altro fa correre la ragnatela paziente dei suoi fildiferro. I quali, ancora abbastanza aggrovigliati, propongono tuttavia un riordinamento delle esperienze irrazionali, sono la “règle qui corrige l’emotion”. (Caraceni ricorda che davanti a questo quadro Palma Bucarelli parlò di “oltre l’Informale”). Poi il fondo maculato scompare, e resta il bianco del supporto sul quale i fili proiettano l’ombra. Calvesi parlava di una doppia polarità, di un incontro di Mondrian e Dada, ovvero irrazionale-razionale, e concludeva: “Ma se gli estremi son questi, il punto dialettico cruciale, la psicologia del suo sillogismo, non è né una lucidità né un non senso; è un allarme che squilla, come da una suoneria aerea lontanissima, quasi un “terrore che corre sul filo”. Egli intitola “gesto” le sue attuali pitture. E infatti la sua è sempre stata una pittura agita, perché non contemplata ne contemplante. Il suo idolo è la tecnica, la tecnica come pulizia, la tecnica come calcolo, la tecnica come integrale artificialità, e la tecnica è azione. Ma il gesto di Caraceni non fa clamore; e se l’azione non s’estroverte, resta la tecnica come puro dato si sé, che ricama entro i suoi limiti; che s’introverte in sé stessa per diventare un pensiero ossessionante e suicida. E questo sembra il centro del suo sillogismo, un pensiero come di panico, sottile e puntuale come la stessa emergenza fisica della trama contro la superficie, di silenzio, del dipinto”. Ma, educati da secoli a “non saper vedere”, molti evidentemente non sanno neanche leggere, se pure la presa di posizione di Calvesi cadde nel vuoto. Queste vaste tessiture spaziali hanno un rapporto evidente con lo spazialismo di Fontana. Dare un’immagine nuova del movimento attraverso la luce. I ritmi stellari diventano percorsi di fantascienza, la ragnatela può modularsi come un’arpa. E questo filo in cammino tra i punti di riferimento dei chiodi è come la traccia assurda d’un cammino incompiuto, eppure pronto a ricominciare dall’altra parte. Circonvoluzione cerebrale oppure orbita impazzita intorno a qualche pianeta? Lo spostamento della luce fa scattare l’immagine, la quale cambia prospettiva e significato restando sempre uguale a se stessa. Se la costruzione è il punto di partenza, il punto d’arrivo è l’ambiguità. Tutto gli interessa: il filo teso e rigido, o forse la dislocazione raggiante dei chiodi, o forse le ombre tracciate sul supporto, o forse le zone in negativo sfrangiate sul rapporto dal percorso dei fili, o forse il nostro movimento che interviene a portare un’altra prospettiva, o forse l’ondeggiare della luce. Ovvero, un’ambiguità pienamente comprensibile alla luce della psicologia di Gestalt. Alla evocazione, Caraceni sostituisce il mestiere, al ricordo il gesto, al subire il fare, al ripiegamento interiore l’avventura; alla melma dell’inconscio sostituisce i fasci di luce dell’intelligenza. Poi interviene sul rapporto: inventa il quadro doppio con i percorsi nascenti al recto e al verso. Dove il verso non è l’altra faccia della luna: è la stessa identica cosa. Poi movimenta il quadro in un palcoscenico con scena e retroscena e quinte girevoli, poi lo rende fruibile unendo al fildiferro bianco un elastico rosso che lo spettatore può liberamente comporre in superficie, tra chiodi di riferimento. Caraceni sa che sostituire al labirinto duecento fili-d’arianna significa dar vita ad un labirinto ancora più disperante, perché parte dal falso incoraggiamento a entrare nel quadro.
Le mappe. In disegni e incisioni recenti, affronta una strana figurazione. Pochi gli elementi tipo: orografie di livello, fiumi, ferrovie, pianure, campi. Ma ogni segno-simbolo è preso per allusione formale, non per significato. Ci sono anche motivi cellulari e mappe fotogrammetriche e tracce prolungate. Non è certo meno umana una serie di tracce che indicano un passaggio: e Caraceni (infallibile detective) l’ha capito prima di tanti altri. Indi il bisogno del ritorno al mondo umano, di percorsi e di segnali, di topografie vecchie e nuovissime. E c’è un ritrovamento degli antichi percorsi di fili, nelle strisce sopraelevate che muovono il supporto, influendo decisamente sulla figurazione. Motivi a fuoco e sfuocati, come una terra vista dall’astronave. Dove la scienza diventa fantascienza e lo spazio fantaspazio. Caraceni ha sempre annunciato qualche svolta, non per fantasmagoriche invenzioni ma perché prima di altri ha saputo leggere in quel libro gigante che è il passato. Calvesi ha parlato della duplice polarità Mondrian-Dada, ma si può aggiungere il Costruttivismo e il Cubismo e il Futurismo e così via. Crediamo che si possa rinvenire un processo logico. Prima viene il “segno” filamentoso, poi la macchia. La macchia diventa carnosa con l’intervento del plexiglas, il segno diventa tangibile con il fildiferro: ed entrambi si avventurano nello spazio in un nuovo supporto. Poi la materia scompare e diventa “fondo”, il segno si fa primattore e passa alla ribalta teso come una passerella tra i chiodi sparsi strategicamente. Poi gli spazi frantumati si ricompongono in una scatola spaziale unica; e l’opera, da palcoscenico diventa retroscena. Oggi interviene una tinta di scherzo e di ironia e di fantasia all’interno della programmazione che l’artista si auto-impone. Perché, infine, Caraceni crede alla personalità dell’artista e, come si legge nel manifesto della Bauhaus, sa che l’opera d’arte è soltanto una piccola improvvisa scintilla che può scaturire dal mestiere.
Naccari, Presentazione della personale di grafica di Bruno Caraceni al circolo culturale C. Goldoni – Artistico 22, Chioggia, 19-29 ottobre 1965
Rientrato in questi giorni dalla Cecoslovacchia in cui, con larga adesione di pubblico e di artisti ha esposto a Bratislava (Galleria Cypriana Majenike dal 23 settembre) una serie di opere grafiche recenti (la mostra si sposterà a Praga, Brno, Zilina), Bruno Caraceni espone oggi al Circolo culturale della nostra città in Calle. Questo nostro concittadino è ogni volta una scoperta. Lo ricordiamo quando, ancora studente dell’Accademia ritrasse efficacemente e con umana commozione l’effigie di Ballarin, il calciatore chioggiotto della nazionale italiana, tragicamente scomparso nella sciagura di Superga, su di una medaglia, lo rivediamo nel 1952 al “Granaio”, quando espose i suoi magici ghirigori, poi alla Biennale di Venezia nel del 1956 con le sue “Zone” di luci ed ombre e in quella successiva nel 1958 in cui appaiono le sue prime esperienze in plexiglass. Poi ancora al “Cavallino” di Venezia nel 1960 in cui riappaiono le vaste tessiture spaziali di fili che già si erano affacciate con successo alla Quadriennale di Roma dello stesso anno. Molta la strada dal 1950 ad oggi e molte le ricerche e le scoperte di questo pittore nostro la cui opera grafica quest’anno abbiamo notato la Biennale Internazionale di Grafica di Lubiana. Da oggi, Caraceni espone per noi, per la sua gente, le sue ultime incisioni: percorsi, mappe, planimetrie di ponti e di città, battaglie antiche? Che cosa? “Motivi a fuoco e sfocati, come una terra vista dall’astronave. Dove la scienza diventa fantascienza e lo spazio fantaspazio” chiarisce per noi Maurizio Fagiolo, il giovane critico “premio Querel” quest’anno a San Marino, che ha tracciato recentemente sull’ “Avanti!” un profilo indovinatissimo di Caraceni, figura autentica di artista, la cui storia è fra le più valide, precise e coerenti di questi nostri anni difficili.
L.P. Finizio, in “il pensiero Nazionale”, numeri 23 – 24, Roma, 31 dicembre 1965.
“In un tempo come il nostro di robot e di navi spaziali che ha bisogno prima di tutto di chiarire il rapporto tra l’uomo e la tecnica, anche la lucida, calcolata ossessione alle prese col nulla di Caraceni può rappresentare un richiamo positivo contro la troppo grande certezza della tecnica e l’opposta indifferenza della maggioranza degli uomini”. Così scrisse tempo fa Alberto Boatto parlando dell’opera di Bruno Caraceni, di cui si è inaugurata di recente una personale alla nuova galleria di piazza Poli. Ed è un’osservazione quanto mai attuale tenendo proprio conto delle ultime realizzazioni dell’artista chioggiotto. Dagli ormai noti lavori a filo in cui appunto materialmente sostituiva il segno e non per ritornare poi ad essere ancora segno in un tracciato discorsivo, bensì con l’intento di dare al filo la possibilità di una sua connaturale e precipua virtualità di significato, Caraceni infatti è passato nuovamente al segno non più con valore significativo ma decisamente asemantico. Non credo infatti che le recenti composizioni di Caraceni inducano ad una interpretazione analogica, alla rilevazione cioè di un segno di natura simbolico, come qualcuno ha voluto intendere. Quella sorta di mappe topologiche, di paesaggi squisitamente mentali alla cui composizione si dedica attualmente il nostro pittore nascosto appunto dall’accumulazione di segni radicalmente svuotati di ogni possibile referente discorsivo e simbolico. È il segno insomma che nel proprio risucchiamento semantico presentifica se stesso ritrovandosi in una sorte di smemoratezza di “ossessione alle prese col nulla”.
Maurizio Calvesi, Caraceni o il labirinto, in Osservato da dentro, Palazzo Reale, Sala delle Cariatidi, Milano, 1968.
Nelle opere di Caraceni, accanto ad un aspetto formale, ce n’è uno psicologico-mentale. Oggi che l’arte sembra avviata, come reazione alle formalizzazioni della Pop, ad un nuovo momento in-formale inteso non come negazione della forma, ma come superamento dell’ambito espressivo della forma e dell’immagine, questo aspetto psicologico-mentale ha un particolare interesse. Gli ultimi sviluppi delle “strutture primarie” in America, sembrano, assumendo letteralmente il termine di “struttura”, proporre questa come sistema di relazioni implicito nell’oggetto ma indipendente dalla sua fisicità, dunque come sistema mentale. Caraceni intitola “Struttura-Labirinto” certe sue recenti opere, ma le chiama anche “Antistrutture”. Mi sembra molto preciso. Il labirinto è infatti, più che una struttura, il suo contrario. La struttura torna in sé stessa, si definisce nella circolarità del rapporto; invece il labirinto è una serie di connessioni soltanto simulate, in realtà non crea ma distrugge il rapporto. L’operazione mentale che si può avviare sul tema del labirinto è destinata ad esaurirsi, ad estenuarsi in sottigliezze sempre più estreme ed assurde; sfocia così in un motivo psicologico, si trasforma in qualcosa che impegna capillarmente l’intero sistema psicofisico al limite della nevrosi. In questo, le attuali “Strutture-labirinto” di Caraceni che sembrano suggerite dalle sue “Mappe” degli ultimi anni e in sostanza da un immagine della città e dell’aggiornamento urbano come non senso o, almeno, come espressione più tipica e moderna del labirinto, sono assolutamente equivalenti ai suoi dipinti con fili, il cui significato mi apparve più chiaro dopo aver visto Caraceni al lavoro nella sua Chioggia, dove le fitte trame delle reti e dei velieri allineati in lunga fila attestavano, riportato alla dimensione del mare e della navigazione, un simile sentimento di infinito e capillare vagabondaggio.
Marcello Venturoli, in Osservato da dentro, Palazzo Reale, Sala delle Cariatidi, Milano, 1968.
Bruno Caraceni è stato ed è tutt’ora uno dei rappresentanti, anche nelle annate oscure, del genere astratto a Roma, ma non di un astratto che riposa su soluzioni di maniera, e gli dà piuttosto la misura della capacità e di un fuoco perpetuo nella scoperta di tecniche nuove e di nuovi mezzi di espressione con delle “macchine” stilistiche che sono state in seguito accettate e sviluppate da altri.
Marisa Vescovo, Il “segno” contraddetto. Colore – segno – spazio come ipotesi “altra” di “ambiente”, in “Iterarte 9”, Bologna, novembre 1976.
Bruno Caraceni, traduce sulla tela degli “eccentrici” 75/76 la spazialità scenica e senza frontiere degli “Angolari”. Sulla superficie del quadro appaiono ora le nostre scenografie mentali, da leggere come area in cui si attuano e prendono corpo le nostre immagini prime, mentre le pulsioni e le espansioni della concentrazione cromatica indirizzano le tensioni verso l’esterno. Questo per leggere e riscoprire mentalmente uno spazio che sia precostruito e formalizzato. Da questa carrellata di mappe, non esaustiva, di nomi e indicazioni di lavoro, ci sembra prendere corpo un “oggetto attivante”, che sta tra il momento dell’ipotesi virtuale è quello dell’ipotesi verificabile. Il progetto o la processualità spaziale, costituiscono un “continuum” di problemi che mettono in moto rapporti, anche dialettici, influenti sul sistema di comportamento di chi guarda, che non è più obbligato a percorrere “lo” spazio, ma è semplicemente invitato a ricostruire sulla parete l’ambiguità percettiva dei “segni” e dei “chroma “, che si muovono all’interno di quelli che Guarnirei definirebbe: “quadri a lento consumo”.
Sandra Orienti, La scomparsa di Bruno Caraceni. Un isolato alla ricerca dell’arte, in “Il Popolo”, 12 novembre 1986.
È sempre doloroso dar notizia della scomparsa di un amico, ma lo è ancor di più, ed è più difficile, quando questi sia anche un artista: e se si pensa allora, oltre che alla sospensione repentina dell’esistenza, alla interruzione di un’operatività che è stata il cardine della vita. Così, infatti, per Bruno Caraceni. Tanti dei suoi lavori sono ancora sconosciuti, di contro ad altre opere che anche appena nella stagione passata sono state riviste con stupore e attenzione, pure in rapporto alle date che recavano e che documentavano una presa di linguaggio anticipatore, forte e sottile nello stesso tempo. Tutto l’arco della sua vicenda breve ed intensa (Caraceni era nato nel ‘27, nella sua Chioggia, dove ieri è mancato) era stato investito dalla vocazione all’arte, da intendere in una accezione complessiva dove si riversava la passione della pittura, la scavata considerazione della materia condotta al crepitio delle combustioni, il rigore della costruzione tridimensionale, l’attenzione ai valori dello spazio nelle relazioni ambientali accentuatamente plastiche, la finitezza inventiva delle combinazioni più ardite e la sottigliezza di un’esperienza grafica impareggiabile. Non era possibile, in Caraceni, verificare una pacifica consonanza con i tempi, ma invece uno scarto in avanti, esplorazioni laterali e trasgressive che spesso non sono state pienamente intese, al momento, forse perché troppo avventanti e desuete rispetto a certa prevedibilità del procedere dell’arte. Né, d’altro canto, Caraceni è stato un’artista attento ai venti della critica e del mercato, ai rituali delle cerchie alle strategie di gruppi, ma – isolato e non solitario- ha continuato a lavorare sul filo lucente di una lama inventiva e di una sperimentazione ostinata quanto la ricerca: che sono state, infatti, le vettrici di tutto il suo percorso artistico: quasi avesse sempre sotto gli occhi per essere certo di navigare nel “suo” giusto, in mezzo alle tempeste del presente costume artistico, quelle sue famose “mappe” disegni sottili, di fili tracciati, di forme minime appena affioranti che costituiscono uno dei nuclei essenziali e indimenticabili della sua opera. Un’opera, peraltro, che dovrà essere riconsiderata nella sua complessità e nei suoi sbocchi, nella quantità delle opere disseminate nella casa-studio sempre più incontenibile invasa da un fare ininterrotto, nella qualità degli esempi capitali da rimandare sempre alla sua e alla storia del presente, nella segreta progettualità che ha accompagnato il suo lavoro e che dovrà essere ripercorsa e verificata come documento di basilare interesse: tutta una vicenda umana ed artistica talmente intrecciata che Bruno ha potuto vivere anche perché sostenuto dalla solidarietà, dalla comprensione e dall’affetto di Angela la nostra amica che tanto ha dato di sé a questo giornale. Ma oltre quel che resta, ed è tanto, dell’opera di Caraceni e che in questo momento balza di nuovo agli occhi della mente in sequenze intense, bisogna rammentare pure una piega a molti segreta: la passione per la macchina fotografica, che in tanti anni l’ha portato a collezionare in gran numero pezzi di vero interesse. E forse, al di là dello stimolo irrinunciabile del collezionismo, c’era in Bruno un’altra suggestione che provocava questo accumulo: l’attenzione alle facoltà dell’occhio e alla possibilità ulteriori ed estreme, arricchite dalle inafferrabili pulsioni dell’intimo: quelle appunto che consentono all’artista il dono raro e inestimabile della seconda vista.